"Invisibile. E’ questa la condizione in cui si trovano gli apolidi, persone senza patria e cittadinanza che vivono ai margini della società e nel silenzio dei media."
Sono diverse le ragioni per cui ci si può ritrovare in questa condizione: se si è profughi a seguito di conflitti o persecuzioni nel proprio Paese di origine, se si eredita tale status dai genitori, se lo Stato di cui si era cittadini si è dissolto o ancora per lacune amministrative nella registrazione delle nascite.
Nel 2021, secondo i dati dell’Istat, le persone apolidi de iure riconosciute in Italia sono 431, un calo del 19,9% rispetto all’anno precedente.
Tuttavia, se si considerano i dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), il numero degli apolidi de facto è compreso tra le 3.000 e le 15.000 unità, di cui la maggior parte è appartenente alla comunità rom dell’ex Jugoslavia - popolo “senza stato” per antonomasia - seguiti da ex Unione Sovietica, Cuba, Palestina e Tibet. In Europa, invece, si contano mezzo milione di persone senza cittadinanza, la cui condizione di marginalità è stata aggravata dalla pandemia da Covid-19.
Foto di: Ahmed Akacha
Ci sono profonde differenze tra un apolide de iure e uno de facto. Il primo è considerato quasi al pari di un cittadino italiano: ha infatti accesso all’istruzione e alla previdenza sociale, oltre a essere iscritto al Servizio Sanitario Nazionale anche se, per lavorare, è necessario un permesso di soggiorno e i viaggi all’estero sono consentiti solo con il titolo di “viaggio per apolidi”, scrive Altreconomia.
Nel secondo caso, la situazione è più intricata: il diritto all’assistenza sanitaria e all’istruzione sono garantiti solo fino ai 18 anni, a quel punto non ci si può iscrivere all’università, comprare o affittare una casa e lavorare se non in condizioni di irregolarità. E’ questa la situazione in cui si trova la comunità rom dell’ex Jugoslavia. Il rapporto Fantasmi urbani (2021), pubblicato dall’Associazione 21 luglio, mostra come la loro condizione di irregolarità continui a compromettere le possibilità di inclusione e pieno esercizio dei propri diritti, oltre a essere causa di discriminazione e stimolo di comportamenti “devianti”.
Dal punto di vista normativo, i principali strumenti per la tutela dei soggetti apolidi sono la Convenzione relativa allo statuto delle persone apolidi (1954), applicata in Italia dal 1962, e la Convenzione sulla riduzione dell’apolidia (1961), a cui il governo italiano ha aderito solo nel 2015.
Nel nostro Paese è possibile seguire due procedure per ottenere il riconoscimento in quanto apolide: amministrativa e giudiziaria. Nel primo caso la domanda deve essere inoltrata al ministero dell’Interno presentando l’atto di nascita, un documento che dimostri la residenza in Italia e/o lo stato di apolidia, ma solo una minima parte dei richiedenti possiede tale documentazione a causa del proprio stato di irregolarità. Quanto all’iter giudiziario è necessario rivolgersi a un avvocato, ma sono pochi i professionisti specializzati: con l’eccezione del patrocinio gratuito, il supporto per una causa può arrivare a costare 5.000 euro e spesso le persone apolidi sono in condizioni di difficoltà economiche. Inoltre, tali procedimenti possono durare fino a due anni.
Un altro aspetto su cui la legge italiana è carente riguarda la condizione dei figli di persone apolidi. “Il riconoscimento del figlio come cittadino italiano può avvenire solo se i genitori sono apolidi riconosciuti. In caso contrario la richiesta sarà rigettata dall’ufficiale di stato civile”, spiega Enrico Guida, Protection Associate di UNHCR e membro del Tavolo Apolidia, rete di associazioni in difesa dei diritti degli apolidi, ad Altreconomia. “Sarebbe invece necessario implementare meccanismi per soffermarsi sul nato, e non solo sul genitore, per garantire la salvaguardia. In questo modo in Italia assistiamo a casi estremi di famiglie apolidi da tre generazioni” conclude Guida.
Oggi gli apolidi de iure possono chiedere la naturalizzazione dopo aver vissuto regolarmente in Italia per almeno cinque anni. Gli apolidi de facto, invece, posso farlo se legalmente residenti in Italia per almeno dieci anni, una condizione difficile da soddisfare per chi non ha mai visto prima il riconoscimento della propria condizione giuridica. Un altro problema risiede nella mancanza di raccordo tra procedure di asilo e di determinazione dell’apolidia: le commissioni territoriali possono infatti riconoscere la protezione internazionale ai richiedenti asilo senza cittadinanza ma non riconoscere lo status di apolide. Articolo a cura di Francesca Maria Lorenzini
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