Il 9 febbraio il governo nicaraguense guidato da Daniel Ortega ha ordinato la liberazione di 222 prigionieri politici, i quali hanno firmato un documento in cui accettavano di lasciare il Paese.
Durante il loro viaggio aereo verso Washington D.C., negli Stati Uniti, il parlamento sandinista- cioè guidato dal Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, partito e movimento rivoluzionario di ispirazione socialista - ha approvato una riforma costituzionale che li ha privati della nazionalità nicaraguense e della possibilità di ricoprire qualsiasi funzione pubblica definendoli “traditori della patria.” Tra questi ci sono leader dell’opposizione, attivisti per i diritti umani, studenti che presero parte alle proteste antigovernative del 2018, ex candidati alla presidenza ed ex guerriglieri sandinisti come Dora María Téllez.
La ragioni dietro tale scelta non sono molto chiare. In un discorso trasmesso sulla tv nazionale Ortega ha ribadito che è stata una decisione unilaterale e che non ha chiesto niente in cambio al governo di Washington, tantomeno la rimozione delle sanzioni economiche che gravano sul Paese da anni. È possibile però che Ortega voglia aprire uno spiraglio di dialogo con gli Stati Uniti e cercare di uscire dall’isolamento internazionale.
Agli ex prigionieri, ora apolidi, è stato conferito un visto umanitario che consentirà loro di restare nel Paese per due anni con la possibilità di fare domanda per ottenere l’asilo politico o accettare la proposta da parte del governo spagnolo guidato da Pedro Sánchez, che il 10 febbraio ha offerto loro la possibilità di prendere la cittadinanza spagnola. Proposta che è già stata accettata da molti dei 222 prigionieri.
Tuttavia, alla gioia della libertà si aggiunge la preoccupazione di dover ricominciare tutto da capo, nella maggior parte dei casi da soli. Alcuni hanno già dei familiari all’estero a cui rivolgersi, altri devono trovare una famiglia disposta ad ospitarli. Chi ha lasciato in Nicaragua dei figli minorenni dovrà affrontare un percorso burocratico intricato, dato che essere senza cittadinanza complica la possibilità di ottenere il ricongiungimento familiare.
Come se non bastasse, il 15 febbraio un tribunale nicaraguense ha presentato una lista di 94 persone accusate di essere traditrici della patria, privandole della loro nazionalità e ordinando la confisca di tutti i loro beni e l’esclusione da ogni incarico pubblico o elettorale. Tra queste ci sono attivisti per i diritti umani, giornalisti, ex deputati e scrittori.
Tali misure inaugurano una nuova fase del governo autocratico di Ortega, dal momento che queste sono applicate a distanza, a oppositori che si trovano già fuori dal Paese. Secondo alcuni esperti ciò fa anche luce sulla profonda crisi politica interna.
Ma secondo alcuni dimostra anche che il governo sandinista attraversa una profonda crisi interna. Il giornalista nicaranguense Wilfredo Miranda Aburto scrive che si tratta di “un gesto estremo e disperato, motivato dal fallimento della liberazione dei 222 prigionieri politici. Ortega sperava che in quel modo la comunità internazionale smettesse di chiedere il loro rilascio, invece il rifiuto del vescovo Rolando Álvarez di lasciare il paese ha mandato all’aria i suoi piani: non solo ha ricordato che nelle carceri nicaraguensi ci sono ancora una trentina di detenuti politici, ma anche che sei milioni di cittadini aspettano di essere liberati dal giogo della dittatura”.
Tra i paesi sudamericani guidati da governi di sinistra, l’unico a schierarsi in modo chiaro contro le misure prese dal governo di Managua è stato il Cile di Gabriel Boric: “Non sa il dittatore che la patria si porta nel cuore e nelle azioni, e non si toglie per decreto”, ha scritto il presidente su Twitter. Il 22 febbraio il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador ha rotto il silenzio sulla crisi politica del Nicaragua, offrendo asilo politico ai cittadini espulsi da Managua ma senza criticare apertamente la deriva autoritaria del regime. Articolo a cura di Francesca Maria Lorenzini Foto in copertina: Esuli nicaraguensi in attesa del volo dei prigionieri politici all’aeroporto Dulles di Washington - foto Ap
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